Risparmio energetico cognitivo, ecologia cognitiva, oppure, più semplicemente, pigrizia. Possiamo chiamarlo come vogliamo, ma la questione è innegabile. Viviamo in un ambiente carico di stimoli, in cui ogni giorno il nostro cervello è chiamato a prendere moltissime decisioni, dalle più banali alle più complesse. Biologicamente, siamo portati a ricercare due obiettivi: risparmiare tempo ed energie. Questo ci porta a cercare (anche inconsciamente) scorciatoie, imboccare strade brevi con la speranza che siano quelle giuste per ottenere un risultato con la minor fatica possibile.
Si tratta di una caratteristica del nostro cervello che ci portiamo appresso da decine di migliaia di anni. Un modo di fare che ha origini antichissime, che si presume risalga ai tempi dell’homo sapiens, quando per cacciare e sopravvivere doveva prendere decisioni rapide per fronteggiare grossi animali, come orsi, mammut e bisonti.
Va bene, ma oggi? Nonostante i secoli di evoluzione, ancora oggi il nostro cervello persevera nell’utilizzare alcuni meccanismi mentali che condizionano le nostre scelte, il significato che diamo a ciò che ci accade e al contesto in cui viviamo.
Queste scorciatoie mentali sono definite euristiche. Si tratta di processi mentali automatici, in cui ragione e logica sono tenute da parte, e che hanno avuto una funzione fondamentale nell’evoluzione umana.
Imbocchiamo una scorciatoia, ad esempio, quando nel giudicare la probabilità di un accadimento ci affidiamo alla nostra memoria o alla passata esperienza per ottenere indicazioni utili, indipendentemente da qualsiasi principio matematico o statistico. Talvolta però, imboccare queste scorciatoie può portare fuori strada, incorrendo in quelli che in gergo vengono chiamati bias mentali, ossia gli inganni della mente.
Cosa sono i Bias Cognitivi
Dobbiamo prenderne atto: il nostro cervello si auto-inganna più spesso di quello che potremmo essere disposti a credere. Dai bias cognitivi purtroppo non si scappa, fanno parte del modo in cui la nostra mente opera ogni giorno. Anche chi generalmente tenta di operare secondo raziocinio e logica, prima o poi cade nel tranello. Sfuggire è impossibile, ma imparare a conoscerli e acquisirne consapevolezza potrebbe aiutarci a guardare la realtà con più lucidità.
Il nostro cervello si auto-inganna più spesso di quello che potremmo essere disposti a credere.
Cosa sono i bias cognitivi? Si tratta di una distorsione cognitiva, un processo mentale fallace, un errore del sistema tipico del nostro modo di affrontare lo sfaccettato contesto nel quale viviamo. Questi errori si innescano quando siamo chiamati a prendere decisioni in modo rapido, in contesti rispetto ai quali non abbiamo tutte le informazioni utili e necessarie per poter fare scelte in modo razionale. Il termine bias in inglese significa obliquo, inclinato, ma anche errore, pregiudizio, preconcetto.
Sì, il nostro cervello si auto-inganna, ma per una giusta causa, si potrebbe dire. I bias nascono infatti come risposta ad esigenze insopprimibili: cercare di dare un senso al mondo, filtrare miliardi di informazioni, selezionare le cose da ricordare (e quelle da dimenticare), agire velocemente anche quando il contesto non ci fornisce tutti gli input per farlo con massima sicurezza.
Il marketing e gli inganni della mente
I bias cognitivi influenzano direttamente anche le scelte di marketing. Perché chi lavora nel marketing e nella comunicazione dovrebbe prenderli in considerazione? Fare marketing significa ingannare la mente delle persone?
Chi fa marketing, chi comunica, chi vende non può prescindere dal conoscere l’esistenza e la natura dei principali bias cognitivi. Il motivo è molto semplice: non si può lavorare per spingere le persone a prendere delle decisioni senza avere almeno una vaga idea di come funzioni il cervello umano. Queste decisioni possono essere le più disparate: dall’iscrizione a una newsletter alla visita di una landing page, dal terminare la lettura di un post al completare il processo di acquisto di un prodotto su un e-commerce.
Essere a conoscenza dei meccanismi subconsci che muovono le nostre scelte può senza dubbio migliorare la definizione di una strategia digitale, aumentando la possibilità di condizionare quelle stesse scelte.
Chi fa marketing, chi comunica, chi vende non può prescindere dal conoscere l’esistenza e la natura dei principali bias cognitivi.
Queste premesse ci portano ad alcune considerazioni. La prima è che il lavoro di un professionista che opera online deve sempre essere incentrato sulla persona. Deve tenere conto di emozioni, relazioni, valori e dei processi mentali (anche, e soprattutto, i più fallaci) per capire su quali informazioni e metodi di comunicazione fare leva per raggiungere un determinato obiettivo.
L’obiettivo non è ingannare, ma semplicemente far prendere al cliente una decisione che lo soddisfi, puntando non solo ad acquistare, ma a dare valore e, quindi, a fidelizzare.
Bias Cognitivi: conoscerli per comprenderli
Sebbene non sia necessario essere esperti di psicologia, conoscere almeno le basi di come opera la mente umana è indubbiamente una competenza di grande valore per chiunque lavori nel marketing. Riuscire ad immedesimarsi nelle persone che potrebbero essere interessate al prodotto o servizio che offriamo è fondamentale per impostare una comunicazione chiara ed efficace.
Bisogna sapere cosa cercano le persone, quali informazioni e emozioni trasmettere per far scattare una dinamica di acquisto, su cosa fare leva per indurre un’azione.
Vediamo quindi alcuni tra i principali bias cognitivi che ci portano a prendere decisioni a volte irrazionali, bypassando il filtro della razionalità e della logica.
Dunning Kruger Effect
Prende il nome dagli psicologi sociali che per primi lo hanno studiato, David Dunning e Justin Kruger. Si può sintetizzare in una semplice formula.
Più si sa e meno si sa di sapere. Al contrario, meno si sa e più si è convinti di sapere.
In sostanza, le persone sono spesso inconsapevoli della propria incompetenza. Anzi, i soggetti meno competenti sono portati a sovrastimare le proprie capacità e la propria competenza in una determinata area. Chi è più impreparato tende a sopravvalutare le proprie conoscenze, chi invece è molto preparato tende più facilmente a vedere quanta parte di sapere gli manca per padroneggiare una materia e, di conseguenza, si sottostima.
In generale, potremmo quindi dire che le autovalutazioni che facciamo potrebbero non essere veritiere. Questo è un concetto che influenza il marketer tanto quanto l’utente finale.
Self-Serving Bias e Sindrome dell’Impostore
Se è andata bene è merito mio (grazie al lavoro, all’impegno, allo studio, alle caratteristiche personali, alle competenze acquisite), se è andata male è colpa del contesto, della sfortuna o di fattori esterni.
Il self-serving bias agisce in molti aspetti del nostro vivere quotidiano: nell’ambiente lavorativo, nelle relazioni sociali, in famiglia, nei contesti sportivi. In sostanza, ci porta ad attribuirci tutti i meriti delle vittorie e a rifiutare ogni responsabilità in caso di sconfitta.
Al contrario, un eccesso di soppressione del self-serving bias potrebbe invece portare alla cosiddetta sindrome dell’impostore. Questo avviene quando ci attribuiamo molti meno meriti di quelli che invece ci spetterebbero. Al contrario del self-serving bias, con la sindrome dell’impostore la tendenza è quella di attribuire i propri successi a fattori esterni e di accentuare ed esasperare le proprie colpe in caso di fallimento.
Acquisire consapevolezza delle proprie responsabilità è fondamentale per riuscire ad interpretare al meglio i dati su cui si sta lavorando. Attribuire il giusto peso ad eventuali vittorie e sconfitte può indubbiamente aiutare a migliorare la propria professionalità.
Bandwagon Effect
Se piace a tante persone, piacerà anche a me.
Le persone sono attratte, scelgono, seguono quello che amano le folle. Generalmente non amano distinguersi, ma conformarsi alla massa. È il cosiddetto effetto bandwagon, il cui nome deriva dal carro (bandwagon) su cui sfila la banda musicale durante le parate cittadine oppure nel corso di manifestazioni pubbliche.
Da qui nascono tutte quelle strategie di marketing basate su meccanismi di riprova sociale, come gruppi di recensioni di clienti soddisfatti o diciture come “il più amato”, “il più venduto” oppure “oltre 1 milione di pezzi venduti”, utilissimi per promuovere un prodotto o servizio.
Famosi portali di recensioni sono nati e hanno avuto successo proprio grazie a queste dinamiche. Prima di prendere una decisione, infatti, le persone tendono a verificare le opinioni e le scelte delle altre persone e, nella maggior parte dei casi, decideranno di aderire alla decisione presa dalla maggior parte di loro. Sfruttando il Bandwagon Effect, si creano meccanismi di viralità, sulla scorta di questo inganno della mente vediamo prodotti o servizi che per un certo periodo diventano veri e propri “must have”.
Cheerleader Effect
Le persone in gruppo sono giudicate più attraenti, e anche più valide, di quelle da sole.
Un errore apparentemente insolito, che prende il nome dalle cheerleader, ossia quelle ragazze che, specialmente durante le partite di football e baseball americano, animano il tifo degli spettatori con coreografie, balli e acrobazie, considerate un modello di fascino e attrazione.
La cosa curiosa è che questa espressione è nata all’interno della serie tv “How I met your mother”, in un episodio trasmesso per la prima volta nel 2008. Studi successivi non hanno fatto altro che confermare e spiegare dal punto di vista scientifico questo errore di valutazione.
Il motivo di questo inganno è da ricondurre alla tendenza insita nell’essere umano a riunirsi in gruppi, sia come famiglie, ma anche in associazioni e gruppi sportivi. Siamo esseri sociali: amiamo stare in gruppo e istintivamente diamo al gruppo una valenza positiva.
Group Attribution Error
Siamo portati a ricondurre in automatico la posizione di un intero gruppo a tutti i componenti di quel gruppo.
È l’inganno mentale che ci porta a estendere il giudizio che abbiamo su una persona, o anche su un prodotto o servizio, a tutto il gruppo di cui questa persona, prodotto o servizio fa parte. Un errore, o pregiudizio di attribuzione, che nasce quando non abbiamo abbastanza informazioni di contesto per dare un giudizio o prendere una decisione.
Questo bias cognitivo ci porta anche a ricondurre in automatico la posizione di un intero gruppo a tutti i componenti di quel gruppo, indipendentemente dall’analisi delle singole posizioni che potrebbero anche divergere l’una dall’altra. Si tratta di una categorizzazione, di una generalizzazione che ci evita il dispendio di tempo e di energie che comporterebbe l’analisi delle singole parti.
Confirmation Bias
L’individuo è portato a cercare conferme alle proprie convinzioni.
Il bias di conferma è un fenomeno cognitivo per cui le persone tendono a cercare conferme alle proprie convinzioni.
In una realtà in cui è possibile trovare facilmente migliaia di informazioni, anche discordanti tra loro, tenderemo a cercare specificatamente (e a dare per buone) quelle che andranno a confermare le nostre convinzioni.
Si tratta di un auto-inganno che affonda le radici nel pensiero illusorio e nella limitata capacità umana di gestire informazioni.
Alcuni esperti sostengono che questo atteggiamento possa nascere dal fatto che le persone non sono sempre pronte ad ammettere di aver sbagliato, in un certo modo sopravvalutando le conseguenze che potrebbero derivare da un proprio errore di giudizio. Questa “paura” ci porta quindi ad avere difficoltà ad esaminare una questione in maniera scientifica ed imparziale.
Spero tu possa aver trovato spunti di riflessioni interessanti. Mi farebbe piacere proseguire il discorso con te qui sotto nei commenti. Fammi sapere cosa ne pensi e se ti è mai capitato di renderti conto di un tuo errore di giudizio.
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